Voluta
dall'ultimo Sultano, Abdul Hamid II, con finalità religiose e militari
insieme (favorire l'accesso ai Luoghi Santi dei Musulmani e
parallelamente consentire un miglior controllo delle estreme regioni
meridionali dell'Impero), la Ferrovia dell'Hedjaz ebbe una nascita
travagliata, come travagliata fu la sua in definitiva breve esistenza.
La conclusione dei lavori (sette anni da Damasco a
Medina per 1300 chilometri, laddove i piani originari prevedevano che la
Ferrovia coprisse anche altri 400 chilometri sino alla Mecca), coincise
all'incirca con la caduta dell'ultima monarchia ottomana; allo stesso
modo le vicende della prima guerra mondiale, in cui la Turchia dei "Giovani
Turchi" si schierò al fianco degli Imperi centrali, dovevano segnare la
fine della Ferrovia. Anche se di essa qualcosa è restato e resta tuttora
(ma non più quale raffinato strumento di politica ma quale, invece, mero
mezzo di scambi commerciali).
La Ferrovia dell'Hedjaz rappresenta, dunque, una grande opera: per la
concezione da cui scaturì e per la realizzazione, in cui, per superare
problemi di ogni specie, Costantinopoli trovò un aiuto determinante
nella tecnica e nella meccanica tedesca. Ben si giustifica, quindi, che,
per l'epoca in cui la Ferrovia venne ideata e realizzata, essa sia stata
giudicata come avveniristica e strabiliante.
Per noi, peraltro, presenta altri e peculiari motivi d'interesse: la
partecipazione - senza precedenti - di ben un migliaio di lavoratori
italiani alla sua costruzione e la continua, efficace protezione che
venne loro da Ambasciata e Consolati d'Italia, nelle quotidiane
tribolazioni dovute alla natura ed all'uomo.
La penisola arabica era ben al di fuori delle rotte dell'emigrazione
selvaggia di quei decenni: probabilmente furono alcuni imprenditori
italiani (anch'essi ebbero un ruolo rilevante nella realizzazione della
Ferrovia) a reclutare e sospingere Siciliani e Veneti verso le terre dei
Circassi, dei Drusi e dei Beduini, verso il Deserto dell'Hedjaz.
I problemi di uno Stato già in via di disgregazione (principalmente
nel campo finanziario ed in quello della sicurezza, specie in regioni
tanto periferiche) ed un clima durissimo si tradussero però per i nostri
lavoratori in veri e propri soprusi e malattie non raramente mortali, da
cui insoddisfazioni e lagnanze.
Ma l'Ambasciatore Guglielmo Imperiali ed i Consoli Riccardo Motta e
Stefano Carrara seppero difenderli, se non in ogni caso risolutivamente,
sempre in modo esemplare, come testimonia il loro carteggio con le
Autorità italiane, riportato fedelmente nel volume.