da: Affari
Sociali Internazionali 4/2005
Le barriere e le sfide della
comunicazione interprofessionale
Stefano Baldi
e Edward Gelbstein
1. Introduzione
Nessuno mette ormai in dubbio il fatto che il mondo sia in
qualche modo diventato più piccolo grazie all’uso delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione (ICT). Una delle tante
conseguenze di questa situazione è che i protagonisti delle Relazioni
Internazionali includono oggi, oltre alla tradizionale figura del
diplomatico, molti altri attori. Ad esempio, sono ormai attori di
politica internazionale a pieno titolo le organizzazioni regionali ed
internazionali, le multinazionali, le borse, le organizzazioni
non-governative, la stampa e i mass media in generale nonché i membri
della società civile.
In questo mondo “sempre più piccolo”, alcune lingue sono
ormai di fatto considerate come “lingua franca” dei tempi odierni e,
mentre questo è sicuramente un aiuto per la comprensione universale,
una comunicazione efficace rimane una vera e propria sfida, così come
definita nel libro della Genesi dove, relativamente alla costruzione
della Torre di Babele, si legge una definizione delle difficoltà di
comunicazione:
“ Il Signore disse: «Ecco,
essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è il
principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a
termine ciò che intendono fare. Scendiamo dunque e confondiamo il loro
linguaggio, perché l'uno non capisca la lingua dell'altro!» (Genesi
11: 6-7).
Qualunque studio della storia dell’uomo confermerà che “la
confusione della nostra lingua”, avvenuta nella preistoria della razza
umana, ha certamente raggiunto i suoi obiettivi ed è talmente radicata
da poter essere riscontrata anche all’interno di società in cui si
condivide uno stesso idioma.
Questo studio intende prendere in analisi alcuni casi
pratici (senza tuttavia fare riferimento a specifici luoghi o
persone) al fine di discutere il ruolo della lingua e in alcuni casi
del gergo, dei protocolli e delle uniformi che caratterizzano i
rapporti fra professioni diverse e formulare alcune considerazioni e
suggerimenti su come la comunicazione possa essere migliorata.
Inoltre, si discuteranno brevemente i metodi attraverso cui
si può realizzare un’efficace comunicazione, se vi è una reale volontà
a che ciò avvenga. Va tuttavia riconosciuto che negli ultimi 5000
anni di storia, né la ricerca filosofica, né quella biologica,
sociologica e psicologica (e in altre discipline) hanno offerto molte
risposte al problema della comunicazione efficace tra culture e
professioni differenti.
2. Il caso delle crisi
internazionali
Il primo
caso pratico si riferisce alle situazioni di crisi internazionale. La
disponibilità di “notizie in tempo reale” attraverso la posta
elettronica, il fax, la televisione satellitare, Internet e molti
altri strumenti che caratterizzano l’era dell’informatica fanno sì che
una percentuale di popolazione mondiale molto più ampia rispetto al
passato abbia accesso a tali informazioni e sia quindi in grado di
seguire gli sviluppi in tempo reale. Contemporaneamente, la comunità
internazionale ha sviluppato una capacità di rispondere a situazioni
di crisi in maniera sempre più coordinata.
Possiamo
classificare le crisi internazionali in due distinte categorie:
·
quelle che derivano da disastri naturali (terremoti, allagamenti) o
provocati dall’uomo (incendi colposi, incidenti industriali);
·
quelle che derivano da conflitti di tipo politico, religioso o
economico o dall’uso della forza all’interno di un particolare stato o
tra due o più stati.
Il caso
pratico che intendiamo considerare si basa su un ventaglio di eventi
recenti che appartengono alla seconda categoria sopra citata. Vi sono
diversi stadi di intervento, alcuni dei quali contemporanei: ognuno
comporta una serie di problematiche relative al tema della
comunicazione:
1.
peacekeeping: intervento da parte di forze
militari di uno o più Paesi abitualmente sotto il coordinamento di
un’Organizzazione Internazionale.
2.
assistenza umanitaria: gestita da
Organizzazioni Internazionali, non-governative e volontari.
3.
istituzione di un Governo ad interim e
ricostruzione dell’amministrazione statale.
4.
ritiro delle forze di Pace.
Questo
breve saggio non si propone di discutere gli aspetti politici e
diplomatici dell’invio degli aiuti militari e umanitari; l’obiettivo è
invece quello di concentrarsi sui problemi che emergono in queste
situazioni, in termini di informazione, comunicazione e coordinamento.
Per meglio definire la natura del problema, esamineremo questi tre
elementi dapprima separatamente.
2.1 Informazione durante
la situazione di crisi
La
raccolta di notizie provenienti da più fonti, che possono essere non
verificabili o inaffidabili, è quasi sempre alla base della diffusione
di informazioni di modesta qualità o incoerenti e dell’eventuale
confusione che ne deriva. In molti casi, le cattive intenzioni portano
a informazioni false nate con l’obiettivo di creare confusione e
minare la credibilità di coloro che si occupano di far fronte
all’emergenza. Utilizzare l’informazione per prendere decisioni e
adottare le giuste azioni è una sfida importante alla quale non
siamo sempre ben preparati. Orari frenetici ed imprevedibili aggravano
ancora di più tale problema e le conseguenze che da questo stato di
cose possono derivare. Durante una situazione di crisi, l’informazione
è una risorsa scarsa. Ciò che è disponibile potrebbe essere di modesta
qualità perché derivante da fonti non verificabili o inaffidabili.
Purtroppo, agire sulla base di queste informazioni è spesso
inevitabile, soprattutto per la mancanza di alternative, anche se
talvolta si corrono seri rischi di una potenziale perdita di
credibilità.
2.2 Comunicazione nella
situazione di crisi
La
comunicazione efficace richiede che le parti in causa condividano una
chiara comprensione delle definizioni e dei parametri su cui si basa
lo scambio di dati e informazioni – in breve la risposta alla domanda:
“stiamo parlando della stessa cosa?”
In
simili contesti, la lingua e soprattutto il gergo hanno un ruolo
chiave. Partendo dal presupposto che tutti gli interlocutori abbiano
una ragionevole dimestichezza nell’uso di una lingua comune – si
prenda l’inglese internazionale
come esempio – vi è un’alta probabilità che le stesse parole possano
mostrare differenze di significato rilevanti per persone
provenienti da diverse parti del mondo. A questo proposito, “comando
e controllo”, “coordinamento”, “sicurezza” ed “integrazione” possono
essere considerati termini potenzialmente problematici per il diverso
significato che possano assumere.
Supponendo che l’informazione sia accessibile dai vari interlocutori e
che sia stato stabilito un canale di comunicazione comune, si può
entrare nell’ambito del protocollo e delle uniformi, che si può
riassumere nelle risposte a tre domande chiave:
1.
Chi comanda?
2.
Ne ha la facoltà (diritto)?
3.
È compatibile con gli altri attori?
La prima
domanda tratta la questione dell’autorità, vale a dire “chi ha il
diritto di fornire l’informazione?” In situazioni di crisi, la
maggior parte dell’informazione in questione è “riservata” (non di
pubblico dominio) e comprende dettagli su attività militari, luoghi,
logistica di trasporti e consegne, intelligence di settore e di altro
genere. Parte di questa informazione è gestita da organizzazioni non
governative (ONG) e altre istituzioni attive nel settore in analisi.
Un esempio specifico è quello della Chiesa cattolica in Africa.
Nella
maggior parte delle situazioni di crisi vi sono numerosi civili
coinvolti – vittime di disastri, sfollati e rifugiati. La questione
dei diritti umani e della protezione dei rifugiati diviene
particolarmente complessa quando i militari devono identificare tra i
rifugiati chi è sospettato di essere un attivista o un criminale. La
maggior parte degli sfollati, normalmente, non possiede alcuna
documentazione e necessita di un riparo sicuro.
La seconda
domanda si riferisce alla relazione tra interlocutori che lavorano
insieme. Infatti, la persona che può autorizzare il rilascio di
informazioni deve decidere se la parte richiedente è nella piena
facoltà di ricevere tali informazioni secondo quello che potremmo
definire il protocollo “necessità di sapere”.
I militari,
come la polizia e altro personale mobilitato per situazioni di
emergenza, hanno un forte grado di riservatezza. Una parte
sostanziale dell’informazione con cui hanno a che fare è, infatti,
considerata classificata. Ne deriva che questo tipo di informazione
può essere solo condivisa in specifiche circostanze e solo con chi ha
l’autorità necessaria per accedervi.
Questo
discorso non vale, invece, per le Organizzazioni non governativa
(ONG), la cui natura e obiettivi comportano la libera utilizzazione e
condivisione di qualsiasi tipo di informazione a disposizione. Ne e’
un esempio Reliefweb, uno dei siti web dell’Ufficio delle Nazioni
Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA)
(http://www.reliefweb.int), in cui alcune delle informazioni
riguardanti le zone di crisi o di emergenze provengono proprio da ONG
attive in quel campo.
L’ultima
delle tre domande sopra elencate (quella relativa alla compatibilità
con gli altri attori) è l’unica che include una componente tecnica,
quella della compatibilità tra tecnologie e formato dei dati
raccolti. Se la mappatura dei riferimenti usati dalla fonte
dell’informazione è diversa da quella usata dalla parte ricevente
l’informazione, questa incompatibilità renderà lo scambio di
informazioni inutile, se non impossibile.
In
un mondo in cui queste situazioni di crisi o di emergenza si
presentano, purtroppo, con una certa regolarità ed in cui sono
coinvolte tra gli altri, le Forze di Pace dell’ONU, l’Organizzazione
per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE), la NATO, l’Alto
Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR), il Programma Alimentare
Mondiale (WFP), che spesso agiscono contemporaneamente sul terreno, il
problema dell’interoperabilità e dello scambio delle informazioni è
diventato un tema di grandissima rilevanza.
Nello
scenario tradizionale della politica internazionale erano i
diplomatici di carriera a svolgere un ruolo chiave nel campo della
comunicazione ma oggi, come abbiamo già accennato, molti altri
interlocutori vi prendono parte. La diplomazia è una disciplina
caratterizzata da elementi come la discrezione, l’attenta
considerazione del modo in cui il linguaggio viene utilizzato e da
molti protocolli formali spesso non scritti. Sono questi gli elementi
che definiscono come, quando e a chi l’informazione viene divulgata in
ambito diplomatico.
La
diplomazia riconosce come suo obiettivo l’interesse nazionale di uno
Stato ed il successo della sua azione può essere misurato sulla base
della credibilità e del rispetto consolidatisi nel lungo periodo. I
documenti redatti dai diplomatici sono principalmente destinati
all’interno, in particolare ai rispettivi Ministeri degli Affari
Esteri e quasi mai al pubblico esterno. I comunicati stampa sono,
invece, il principale canale pubblico attraverso cui vengono divulgate
informazioni circa l’evoluzione, i progressi ed i risultati di
negoziati diplomatici.
La logica
della comunicazione della diplomazia e quella della stampa sono
fondamentalmente differenti ed hanno obiettivi non sempre tra loro
compatibili: i mass-media sono infatti primariamente interessati allo
“scoop” – idealmente ogni agenzia stampa o corrispondente stampa
vorrebbe avere un’ “esclusiva” prima di tutti gli altri. Nel caso
della diplomazia la discrezione su una serie di informazioni o
negoziati puo’ essere fondamentale per il raggiungimento dei risultati
voluti. Cio’ si traduce frequentemente in una forma di reticenza a
rivelare tutti i particolari di delicate situazioni.
I mass media
sono rivolti soprattutto all’esterno e puntano principalmente ad
ottenere la massima divulgazione di informazioni al pubblico. Le
uniche limitazioni sono le legislazioni nazionali in materia di
diffamazione, calunnia ed altri tipi di responsabilità. Elementi
critici di tale divulgazione sono la velocità e la loro suscettibilità
di influenzare l’opinione pubblica. Per ottenere il massimo impatto, i
mass-media tendono a semplificare e talvolta addirittura a
banalizzare le notizie, arrivando ad usare titoli, enunciazioni e “soundbites”
di massimo effetto.
I flussi di
informazione tra fonti diplomatiche e i mass-media sono piuttosto
complessi soprattutto in quanto i presupposti e la cultura di
comunicazione sono molto diversi fra loro. La figura 1 non descrive
fedelmente la realtà in quanto esclude il ruolo fondamentale proprio
della figura del politico del quale questo studio, deliberatamente,
non si occupa.
Attraverso
questa schematizzazione si è cercato di sintetizzare la quantità e il
flusso di informazione che la diplomazia e la stampa producono e come
questi vengono influenzati dai destinatari finali della stessa.
Come si
e’ detto, in diplomazia, la maggior parte dell’informazione scambiata
e prodotta è intesa per uso interno e solo una piccola parte è
destinata ad utenti esterni. Tipicamente, quest’ultima include i
comunicati stampa, i discorsi ufficiali e gli incontri
off-the-record.
Per la
stampa, la situazione è praticamente opposta. La maggior parte
dell’informazione è destinata al pubblico esterno e solo una parte
minima viene utilizzata per uso strettamente interno. La diplomazia è
tra gli utenti dell’informazione prodotta dalla stampa, creando un
ideale flusso circolare.
Fig. 1 –
Canali di comunicazione diplomazia – stampa
Va notato
che nel caso specifico delle relazioni tra diplomazia, stampa ed altri
mezzi di comunicazione di massa, si tratta di un flusso di
informazione asimmetrico. Infatti, la quantità di informazioni fornita
dalla stampa (agenzie, quotidiani e giornali), e usata come fonte dai
diplomatici, è considerevolmente maggiore dell’informazione pubblica
da essi prodotta (comunicati stampa, discorsi), che può, a sua volta,
essere utilizzata come fonte di informazione da parte della stampa.
Infine, va
sottolineato che sia la stampa che i mass-media in generale sono
divenuti fattori fondamentali dell’attività diplomatica, soprattutto
per i riflessi e l’influenza che essi hanno sull’opinione pubblica
sugli ambienti politici che ne sono espressione.
3.
Tipi e dinamica delle relazioni interpersonali
Prima di
approfondire i fattori che rendono efficace o inefficace la
comunicazione, è utile esaminare alcuni aspetti della natura umana: la
specie umana è una specie “sociale” arricchita da tratti “unici”,
quali le capacità di utilizzazione del linguaggio, nonché la volontà e
l’abilità di negoziare.
Tornando
indietro nella storia e rivisitando gli scritti filosofici e di
psicologia, emerge chiaramente che le nostre relazioni sono fortemente
influenzate dalla maggiore o minore affinità che si sviluppa con gli
altri. La piramide di cui alla Fig. 2 schematizza una serie di
livelli di relazioni personali a partire dalla singola persona per
arrivare a tutta l’umanità.
I primi
quattro livelli partendo dall’alto sono facilmente riconoscibili. La
categoria “interessi professionali” comprende le persone con cui
condividiamo un certo livello di educazione, attività comparabili ed
altre caratteristiche comuni tali da poter legare senza difficoltà. I
diplomatici residenti in un particolare paese straniero considereranno
“colleghi” i diplomatici di altri paesi nello stesso luogo. Le
affinità socio-culturali, diversamente dalle categorie precedenti, si
basano su elementi specifici, quali l’amore per l’opera o essere
tifosi di una particolare squadra di calcio. La piramide continua ad
espandersi verso il basso delineando numerose categorie di persone con
cui abbiamo gradualmente meno elementi in comune, tolta ovviamente
l’appartenenza alla specie umana.
Fig. 2 –
Piramide delle relazioni personali
Esistono
ormai strumenti per comunicare direttamente con una fetta rilevante
della popolazione mondiale: 750 milioni di persone hanno usato servizi
di posta elettronica verso la fine del 2003; esistono, inoltre, oltre
1700 milioni di linee telefoniche.
E’
largamente accettata l’idea che vi siano solo sei gradi di separazione
tra due individui qualsiasi: come dire “conosco qualcuno che conosce
qualcuno che conosce qualcuno, ecc.”, fino ad ottenere un collegamento
con un altro individuo identificato.
In realtà la
comunicazione efficace è difficile a tutti i livelli, come dimostrato
dai frequenti conflitti familiari o dal fatto che, nella maggioranza
della casistica di omicidi, vittima e omicida si conoscono!
Anche se di
natura molto differente, entrambi i casi pratici presi in esame
possano essere ricondotti ad una serie di cinque scenari di rapporti
interpersonali (o interprofessionali) che si possono sviluppare a
seconda dei diversi contesti legati ai protagonisti, alle circostanze
e al grado di fiducia che esiste tra le parti.
I cinque
possibili scenari di relazioni interpersonali considerati classificano
idealmente altrettante categorie di relazioni: collaborativa,
negoziale, competitiva, conflittuale e del non-riconoscimento.
La Fig. 3 illustra come questi tipi di relazioni siano legate l’una
all’altra e, allo stesso tempo, siano anche potenzialmente instabili.
Ne risulta che una qualsiasi relazione può spostarsi da una categoria
all’altra migliorando l’efficacia della comunicazione (nel caso di
sviluppo positivo) o decadere e trasformarsi in una rottura completa
della comunicazione (nel caso di sviluppo negativo). Quest’ultima,
purtroppo, e’ una situazione assai frequente nell’ambito delle
relazioni internazionali.
Due fra le
categorie di relazioni descritte presentano un ostacolo fondamentale
alla comunicazione efficace: quella conflittuale e quella del non
riconoscimento. Non a caso, si trovano nella parte bassa del grafico,
che corrisponde a uno scarso livello di fiducia.
Conflittuale
è una situazione in cui le parti si riconoscono ma non sono più in
grado di collaborare per raggiungere un risultato positivo per
entrambi, facendo ricorso, invece, all’abuso verbale o alla violenza
fisica.
Il non
riconoscimento può concretizzarsi in maniera sfacciata e aggressiva
come nel caso di Slobodan Milosevic alla Corte Penale Internazionale:
in questo modo l’ex presidente serbo impedisce ogni possibile scambio
comunicativo, negando i diritti della Corte e la sua stessa
legittimità.
Gli altri
tre tipi di relazioni (collaborativa, competitiva, negoziale) sono
spesso di natura instabile: un cambiamento nella relazione può essere
scatenato anche da un evento di importanza relativa. Una sola parola
fuori luogo, soprattutto nel caso di degrado del rapporto, può
causare gravi conseguenze, portando a gravi conseguenze anche in
maniera molto rapida.
Fig. 3 –
Relazioni interpersonali e livelli di fiducia
Nella
relazione di tipo collaborativo, i bisogni e le posizioni di tutte le
parti sono chiaramente definiti e compresi, e tutti coloro che sono
coinvolti condividono uno stesso obiettivo ed il desiderio di
raggiungerlo. E’ sicuramente la relazione ottimale per la maggior
parte delle situazioni.
La relazione
negoziale ha molto in comune con lo scenario collaborativo tranne che
per alcune necessità e posizioni che potrebbero non essere state
chiaramente definite e richiedono, quindi, discussione e negoziato al
fine di ottenere un risultato accettabile per entrambe le parti.
Sia la
relazione negoziale che quella collaborativa possono velocemente
tramutarsi in competitive quando uno dei protagonisti deve avere — o
decide di avere — un ruolo differente da quello originario. Questo
nuovo ruolo potrebbe risultare in una qualche forma di
sovrapposizione con le responsabilità altrui. Un altro tipo di
relazione competitiva si sviluppa quando un “nuovo interlocutore”
entra in un contesto già esistente e si aspetta di ottenere diritti,
privilegi o concessioni dagli altri interlocutori.
Le relazioni
competitive possono, se non abilmente gestite, deteriorarsi e
scivolare velocemente in relazioni conflittuali o addirittura di non
riconoscimento.
A questo
punto e’ importante introdurre e definire i concetti di credibilità e
fiducia che sono rappresentati graficamente nelle ordinate del
grafico. In mancanza di questi elementi è semplicemente impossibile
ottenere un tipo di comunicazione efficace. Né la credibilità, né la
fiducia sono, infatti, ottenute automaticamente o istantaneamente –
esse devono essere guadagnate. Questo è il motivo per cui la
comunicazione con la famiglia e gli amici è molto più facile rispetto
a quella con un perfetto sconosciuto.
La Fig. 4
cerca di schematizzare come la credibilità e la fiducia tendano a
crescere nel tempo agli inizi delle relazioni interpersonali. Ai
primi stadi di una relazione, sarà la nostra personalità che
determinerà se attribuire al nostro interlocutore un profilo
ottimistico di credibilità e fiducia (come faremmo normalmente con un
medico) o un profilo più cauto (come faremmo con un venditore
ambulante).
Con il
passare del tempo, la relazione può evolvere in diverse direzioni: il
grafico mostra una situazione definita “ideale” in cui la credibilità
e attendibilità della persona in questione tende a crescere dopo il
periodo iniziale, fino ad arrivare livelli più alti che
denotano una relazione stabile e matura. Purtroppo, non si tratta di
casi molto frequenti.
Fig. 4 –
Curva della fiducia
La curva più
rilevante nel grafico è quella che mostra l’ipotesi di una
catastrofica perdita di credibilità o di fiducia, quasi sempre
irreparabile poiche’ comporta la fine di ogni rapporto significativo
e, quindi, di ogni comunicazione. Si e’ volutamente rappresentare
tale scenario con una caduta accentuata della curva perché si può
verificare che una semplice azione sbagliata possa compromettere un
rapporto. Vi sono stati purtroppo molti esempi nelle relazioni fra
stati, oltre che in quelle interpersonali considerati in questi
studio.
4.
Natura ed educazione
Gli
scienziati ritengono che lo sviluppo dell’umanità sia iniziato circa
cinque milioni di anni fa con la nascita di una nuova specie.
L’analisi
del nostro DNA rivela che ne condividiamo quasi il 99% con il bonobo
(un tipo di scimpanzè di taglia piccola). È solo grazie a quell’1% di
differenza che la specie umana ha la facoltà di usare un linguaggio
parlato e complesso, ha una spessa corteccia cerebrale e ha l’abilità
di codificare e registrare le proprie conoscenze (nonostante la
scrittura sia comparsa solo 5000 anni fa).
Il “quasi
99%” rappresenta un’importante eredità da parte della natura, anche se
la maggior parte di noi pensa raramente al grosso impatto che questo
ha sull’attività elettrochimica del cervello. Studi scientifici
mostrano infatti come il cervello sia composto da tre parti
fondamentali:
- il
cervello rettile, che guida l’istinto di sopravvivenza, il controllo
del territorio (o il dominio) e la riproduzione;
- il
cervello limbico, che guida l’associazione, i legami e l’educazione
dei giovani;
- la
corteccia cerebrale, divisa in due metà (destra e sinistra) in cui si
sviluppa l’attività linguistica, il pensiero, la logica, la creatività
ed altre attività a livello cosciente.
Si pensa che
le prime due parti siano autonome e capaci di sopraffare il pensiero
razionale se vi è la sensazione che una delle attività sopra elencate
necessitino di essere guidate. Gli scienziati ritengono che
queste caratteristiche siano indipendenti dal fattore cultura.
Le
caratteristiche definite dalla cultura e dall’ambiente in cui viviamo
sono descritte come “eredità”. Gli elementi più comunemente associati
con il fattore ereditario includono la lingua, i valori e le
tradizioni, il linguaggio del corpo e altri simboli/segnali non
verbali.
La quantità
di materiale disponibile su questo tema non è solo consistente, ma è
di grande aiuto per capire i processi di comunicazione. Si pensi ai
libricini umoristici della serie “The Xenophobe's Guide
to....(nazionalità)”
al libro “Kiss, Bow or Shake hands”,
il “Supplemento al Dizionario Italiano”,
e tanti altri che facilitano la comprensione del linguaggio del corpo
e dei gesti in vari popoli e Paesi.
Chiunque
sia esposto a uno scambio interculturale puo’ capire l’importanza
dell’eredità culturale. Puo’ capire soprattutto come non avere
consapevolezza delle opinioni e delle tradizioni altrui sulla
distinzione tra giusto e sbagliato può risultare in una gaffe se non
addirittura peggio.
5. Gergo, protocolli ed uniformi
Il gergo è
semplicemente una forma abbreviata di linguaggio che incorpora una
conoscenza tacita.
È molto utile in una comunità che condivide un interesse comune in
quanto aiuta a rimuovere qualunque sovrabbondanza di informazione.
Allo stesso tempo, rappresenta una barriera per coloro che non hanno
familiarità con esso rendendo possibile la rapida identificazione
degli “stranieri”. Inoltre, gli “stranieri” si
sentiranno esclusi fino a quando non acquisiranno la capacità di
apprendere ed usare effettivamente il gergo di un particolare gruppo.
Dopo un
determinato periodo di tempo, in cui il gergo ha dimostrato la sua
utilità, questo viene incorporato nel linguaggio tradizionale (ad
esempio una volta “internet” ed “e-mail” facevano parte del gergo).
Il gergo va
oltre lo stile della scrittura: esiste un linguaggio standard per
porre quesiti su un archivio di dati “Structured Query Language”
o “SQL”. Coloro che non sono programmatori vi si riferiscono
come Esse Q Elle, mentre chi lavora nel campo vi si riferisce
come “Sequel”.
Vi sono
molti casi in cui il gergo, che inizialmente era esclusivo di un certo
gruppo di persone, è diventato parte del linguaggio comune di
comunicazione inter-professionale. Per esempio nel caso della
relazione tra diplomazia e stampa, molti termini e acronimi che non si
trovano ancora nel dizionario – come G8, G77, equa distribuzione
geografica, intifada, golpe, embargo e altri – vengono oggi usati
estensivamente dai più con lo stesso significato, anche se spesso in
un contesto differente.
È
interessante notare come spesso non è possibile distinguere se
l’espressione o l’acronimo derivino dall’uso diplomatico o
editoriale.
Il
protocollo è un codice che prescrive il corretto comportamento e gli
ordini di precedenza in specifiche circostanze. Esistono protocolli
ben consolidati nel campo della diplomazia, militare, sociale, negli
incontri formali e via dicendo. Come con il gergo, la mancanza di
consapevolezza può portare, quantomeno, all’imbarazzo.
I protocolli
sono solitamente un gruppo di semplici regole che esistono anche in
natura.
Alcuni esempi di protocolli rilevanti rispetto ai temi trattati in
questo studio sono:
·
non interrompere:
un protocollo solitamente osservato in conferenze e presentazioni,
dove l’audience aspetta il momento delle domande e risposte per
interagire con chi tiene la conferenza.
·
la catena di comando:
protocollo chiave delle forze dell’ordine e militari – si deve
ubbidire a ordini dati da un ufficiale di grado più alto. Non sono
consentite critiche o negoziati.
·
la conferenza stampa:
un protocollo importante per i politici in generale e i diplomatici
che si occupano di media e stampa. La conferenza stampa è, in genere,
un evento formale in cui si può leggere un testo precedentemente
preparato; dedicare uno spazio a domande e risposte per
permettere una chiara attribuzione a chi ha detto cosa durante la
conferenza.
·
“briefing
off the record” (riunioni informali): un protocollo ancora
più importante per divulgare informazioni alla stampa e ai media senza
attribuzione. Questo si riferisce al caso tipico in cui il mezzo di
comunicazione fa riferimento a una fonte importante senza rivelarne in
alcun modo l’identità.
·
convenzione di
Ginevra: una serie di norme giudiziarie riguardanti, tra
l’altro, il trattamento dei prigionieri di guerra (adottata il 12
agosto 1949 dalla Conferenza Diplomatica per la Creazione di
Convenzioni Internazionali per la Protezione delle Vittime di Guerra)
Cosa succede
quando i protocolli non vengono osservati? Le conseguenze dovute alla
non conformità con i protocolli possono essere significative.
Ignorare la
catena di comando può risultare in un licenziamento o addirittura
nell’attivazione della Corte Marziale. L’infrazione delle norme della
Convenzione di Ginevra è considerata una grave violazione dei diritti
umani ed è oggetto di profonda attenzione da parte della comunità
internazionale.
In modo
analogo, un giornalista che sceglie di non rispettare la natura
off-the-record di una dichiarazione rivelando la sua origine, ha
forti probabilità di essere in futuro escluso ed ignorato dalla fonte
di cui ha rivelato l’origine.
Anche le
uniformi, come i protocolli, possono essere un mezzo di
identificazione dell’appartenenza ad un certo gruppo. Le uniformi sono
quasi sempre riconducibili ad un tipo di indumento con un “design”
particolare indossato da membri di un particolare gruppo ai fini del
riconoscimento. L’identificazione può avere due scopi: l’indicazione
di una professione (giudice, infermiera, meccanico) e/o l’indicazione
di uno status (prete, vescovo, soldato, generale).
Un’uniforme
conferisce autorità alla persona che la indossa nell’ambiente in cui
opera. Il seguente è un esempio preso da un contesto in cui i concetti
di “uniforme” e “autorità” non sono molto comuni.
6.
Comunicazione efficace nel mondo reale
La
comunicazione efficace spesso non è niente di più e niente di meno di
una complessa ricerca di equilibri ( per cui, purtroppo, non esiste
alcuna rete di sicurezza).
Esistono
molti altri fattori che, combinati, contribuiscono a rendere efficace
la comunicazione in un ambiente internazionale ed interculturale una
grande sfida. Nel 1580 Michel de Montagne asserì che “la qualità più
universale di tutte è la diversità”.
Questi
fattori includono stili cognitivi (il modo in cui gli individui
organizzano e trattano le informazioni) che possono essere fortemente
influenzati dall’orientamento culturale. In generale si tende a
riassumere tale fenomeno, facendo riferimento alla mentalità “aperta”
o “chiusa”.
Le
persone con mentalità aperta possono interpretare questioni in base al
loro contesto ed ammettere di non avere (o che potrebbero non
esistere) risposte a molte domande che sorgono e che necessitano di
essere esplorate prima di arrivare ad una conclusione. Le persone con
mentalità chiusa operano sulla base di risposte dogmatiche, rigide e
non negoziabili.
È
interessante notare che la maggior parte delle persone con mentalità
chiusa danno una descrizione di sé che le rappresenta come persone con
mentalità “aperta”.
I sistemi di
valori - quei fattori che definiscono ciò che è “giusto” e
“sbagliato”, cosa è la “verità” e cosa è accettato come prova -
possono essere diversi a seconda della zona del mondo che si prende in
considerazione. La mancanza di consapevolezza di tali sistemi di
valori renderà invariabilmente difficile, se non impossibile, la
comunicazione tra diversi gruppi.
Senza un
adeguato livello di credibilità e fiducia, la comunicazione viene
seriamente compromessa – questa affermazione è sempre valida. Mentre
la credibilità può essere guadagnata grazie alla propria reputazione
ed alla propria storia personale, la fiducia deve essere guadagnata e
conseguentemente mantenuta per mezzo di azioni.
L’eredità
dalla natura e dalle tradizioni, il gergo, i protocolli e le uniformi
sono tutti fattori che alzano il livello in cui avviene l’atto di
“equilibrare”, ed è solo attraverso la nostra comprensione di cosa
sappiamo e non sappiamo, con volontà di imparare, che possiamo sperare
di avere successo.
I leader
hanno la responsabilità di facilitare la rimozione delle barriere per
consolidare l’effettività della comunicazione, la condivisione
dell’informazione e il coordinamento delle attività. Il concetto di
Catena di Comando, che non è esclusivamente proprio dei militari,
implica che solo la leadership può iniziare questo processo che è
caratterizzato da un movimento dall’alto verso il basso.
Ogniqualvolta si presenti la necessità di fare una scelta tra
soluzioni incoerenti ed incompatibili, coloro che sono chiamati a
realizzarla devono avere la volontà di abbandonare la sindrome “del
raggiungimento del successo”, che causa uno spreco di tempo ed energie
per dare, spesso, un ritorno minimo, e comunque inadeguato. Il
concetto di “buono” ha molti aspetti positivi, tuttavia è
frequentemente ignorato nella ricerca del “meglio”.
7.
Migliorare la comunicazione interprofessionale
La
comunicazione efficace è destinata a fallire se non vi è la volontà di
ottenerla da una o più delle parti coinvolte. Nel nostro complesso
mondo interattivo, le conseguenze di un fallimento nella comunicazione
sono solitamente disastrose in tempi di crisi.
Vi sono
molti esempi di situazioni di crisi in cui la comunicazione efficace
ha dimostrato di essere problematica per una serie di ragioni, che
possono essere attribuite al gergo, ai protocolli ed alle uniformi.
A New York,
l’11 settembre 2001, un elicottero del dipartimento di polizia che
volava sulle Torri Gemelle aveva previsto il collasso imminente delle
due torri.
L’ordine di
evacuare gli stabili fu ricevuto via radio dall’elicottero dai
poliziotti che infatti iniziarono subito l’evacuazione. I pompieri
invece utilizzavano un sistema radio differente, incompatibile con
quello della polizia, per cui non ricevettero mai il messaggio.
In questa
situazione, i poliziotti evacuarono le torri proprio mentre i pompieri
continuavano a entrare e salire verso i piani alti. A causa delle loro
diverse uniformi e catene di comando i pompieri non poterono,
né vollero, accettare istruzioni dagli agenti di polizia.
Conosciamo
tutti le tragiche conseguenze di questa inabilità a comunicare e tutti
coloro che sono coinvolti nella comunicazione inter-professionale,
particolarmente in situazioni di crisi, non dovrebbero mai dimenticare
l’enorme responsabilità che hanno per la vita e la sicurezza altrui.
L’inglese internazionale differisce talvolta in maniera rilevante
rispetto all’inglese parlato nel Regno Unito, Stati Uniti, Canada,
Australia ed in altri paesi anglofoni: vi sono infatti poche
regole grammaticali e di sintassi e gli eventuali errori durante
la comunicazione vengono ignorati dagli interlocutori durante lo
scambio. Il vocabolario utilizzato spesso include molte parole
non esistenti sui dizionari, ma utilizzate ad hoc per far fronte
alle circostanze.
E’ per affrontare a queste problematiche che l’ex Presidente
finlandese ha lanciato l’ “International Initiative for
Information Technology in Crisis Management” (ITCM). Per maggiori
dettagli su questa iniziativa, si può consultare il sito web
http://www.ahtisaari.fi.
Un esempio classico risale alla fine degli anni Ottanta, quando il
progetto della Comunità relativo all’introduzione di un sistema
monetario basato sulla “European Currency Unit” (ECU), che
avrebbe gradualmente dovuto sostituire le monete nazionali (come
e’ avvenuto successivamente con l’introduzione dell’euro). I
comunicati stampa divulgati e redatti da Bruxelles utilizzavano
l’attento linguaggio del mondo politico, diretto sostanzialmente
ai funzionari pubblici nazionali in paesi che avevano esperienze e
funzioni affini e che avevano familiarità con la materia. Il
quotidiano scandalistico inglese “The Sun”, il 1 novembre 1990,
usò invece un approccio molto più popolare e meno “tecnico”,
mostrando in prima pagina uno dei gesti più volgari usati in
Inghilterra, riassumendo con l’uso di tale immagine i sentimenti
inglesi - non certo positivi - nei confronti della questione.
Nonostante i diversi livelli di cultura, di background e
soprattutto di conoscenza della materia, questa prima pagina ha
ottenuto una tale notorietà da diventare un vero classico, ancora
oggi citato in molti corsi universitari di comunicazione.
|