Roberto Toscano

Il dubbio dell'Occidente. Chi è il vero terrorista?

 Colloquio di Claudio Magris con Roberto Toscano

Corriere della sera, 5 maggio 2005

Claudio Magris, scrittore e critico letterario triestino, discute con Roberto Toscano, attualmente ambasciatore d'Italia a Teheran,  sul terrorismo, sulla definizione del "terrorista" che da 30 anni l'Onu cerca di fissare in termini oggettivi, nonché sulle misure per combattere «la violenza sugli indifesi». Ne scaturisce un confronto di idee ad alta intensità culturale, lontano dai luoghi comuni, che sviscera e sintetizza insieme la complessità del problema.


Claudio Magris: Guglielmo Oberdan è l'eroe dell'irredentismo triestino, il martire mazziniano che ha sacrificato la sua vita per l'italianità di Trieste, o è il terrorista impiccato dagli austriaci nel 1882 per aver voluto attentare alla vita dell'imperatore Francesco Giuseppe? A parte Oberdan, che cercava più il sacrificio che la morte altrui, la storia e la politica vedono spesso innalzate all'altare della patria o della libertà o della rivoluzione o della causa persone che per gli avversari sono da considerarsi terroristi criminali; si pensi, per citare solo alcuni esempi fra i tanti, ai militanti dell'Ira, ai kamikaze palestinesi e così via. Negli ultimi anni il fenomeno del terrorismo si è sempre più esteso e si avverte sempre più la necessità, per combatterlo, di darne una precisa definizione giuridica, che lo distingua da altre azioni belliche, quali ad esempio la guerriglia o la resistenza partigiana, senza che siano soltanto la vittoria e la sconfitta a decidere a posteriori chi si è comportato come un combattente e chi si è comportato come un delinquente.
Di questo problema, sempre più scottante, sta occupandosi Roberto Toscano, un diplomatico — ora nostro ambasciatore a Teheran — che ha eccellentemente operato nei più diversi Paesi, dalla Russia alla Spagna al Cile, anche in momenti drammatici, come il golpe di Pinochet. Intellettuale acuto e profondo, Toscano ha scritto alcuni saggi assai notevoli, fra i quali uno sull'identità, tema anch'esso oggi bruciante e spesso regressivamente svisato. Gli chiedo, incontrandolo durante una sua breve permanenza in Italia, di illustrarmi il progetto di una definizione del terrorismo e la possibilità che esso diventi una concreta norma di diritto internazionale.

Roberto Toscano: È dal 1972 che in sede Onu si cerca, senza riuscirci, di arrivare a una definizione del terrorismo, premessa della conclusione di una convenzione per la sua messa al bando da parte della comunità internazionale.
Ma da cosa deriva questa difficoltà? Dal fatto che quando si parla di terrorismo si confondono fini e mezzi, si prende posizione sulla legittimità o meno della causa per cui l'azione terroristica viene messa in atto e, se la causa viene ritenuta « buona » , l'azione non è più definita come terrorista. Siamo evidentemente nel campo della più assoluta soggettività; non pochi sostengono quindi che per questo motivo una definizione comune è impossibile («il tuo terrorista è il mio eroe» e viceversa).
Ho sempre trovato questa obiezione piuttosto capziosa e anche pericolosa, nel senso che questo scetticismo può portare a una deriva capace di mettere in dubbio altre definizioni — e altre condanne politiche, giuridiche e morali — nei confronti di azioni violente ritenute universalmente inammissibili. Se infatti nessuno sosterrebbe che il genocidio per una buona causa non è genocidio, dopo l'11 settembre abbiamo cominciato a registrare inquietanti affermazioni sul fatto che la tortura è ammissibile se viene praticata per una buona causa: quella di combattere il terrorismo.
A me sembra evidente invece che il terrorismo è semplicemente uno dei possibili strumenti della violenza armata, fra l'altro non necessariamente collegato a una causa politica: la mafia che mette le bombe agli Uffizi o a San Giorgio al Velabro non persegue finalità politiche, ma usa il terrorismo per lanciare allo Stato messaggi di intimidazione colpendo obiettivi civili indifesi.
Ecco la definizione di terrorismo, piuttosto semplice: uso della violenza contro obiettivi «soft» al fine di piegare la volontà di un avversario, non per intaccare le sue capacità di combattere.
Oggi tuttavia potremmo essere finalmente vicini a una definizione concordata. Ormai, di fronte al terrorismo globale, tutti i governi ( anche quelli che hanno ballato con i lupi terroristi) si sentono esposti, sanno di poter diventare a loro volta bersagli del terrorismo e sono quindi disposti quanto meno ad accettare compromessi e limitazioni su questo terreno. Ed ecco che l'Onu, dove si riflette questo nuovo clima politico, pubblica nel dicembre scorso un rapporto (High Level Panel on Threats, Challenges and Change), in cui viene proposta la seguente definizione del terrorismo: «Qualsiasi azione (…) mirata a causare la morte o gravi danni fisici a civili o non combattenti quando lo scopo di tale atto, per la sua natura o il suo contesto, sia quello di intimidire una popolazione o costringere un governo o una organizzazione internazionale a compiere un qualsiasi atto o ad astenersi da esso» . E bisogna aggiungere che nel marzo scorso il segretario generale, nel suo rapporto «In Larger Freedom» , ha recepito in pieno questa proposta di definizione. Certo, la strada verso una definizione è ancora lunga e accidentata, ma credo sia adesso più possibile di prima percorrerla fino in fondo.

Magris: Mi chiedo tuttavia se oggi sia possibile isolare il terrorismo da quella continua guerra globale e totale, strisciante e senza limiti, che scavalca le frontiere fra gli Stati ma anche fra i settori dell'attività umana per coinvolgere l'intera realtà; un fenomeno analizzato genialmente dai due generali cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro libro Guerra senza limiti, tradotto e discusso in tutto il mondo e presentato in Italia da un'introduzione, anch'essa di grande potenza intellettuale, del generale Fabio Mini. La guerra è dovunque: negli scontri militari, nelle azioni di guerriglia, negli attentati indiscriminati, ma anche in azioni intenzionalmente turbative dei mercati azionari, nella diffusione di virus informatici, nell'orchestrazione di campagne mediatiche, le quali hanno assunto un peso e raggiunto un'efficacia ignoti in passato e capaci di determinare in misura decisiva i rapporti di forza e la sorte di un Paese. Un collasso finanziario che sparge paura fra la popolazione civile per mettere a terra un Paese è un atto terroristico, come dicono i due cinesi?

Toscano: Dopo che tu qualche tempo fa me lo avevi segnalato, ho letto Guerra senza limiti e l'ho trovato stimolante, interessante. Devo però aggiungere subito che sono in totale disaccordo. Il problema è quello delle definizioni, e visto che parliamo di Cina, ascoltiamo Confucio: «Se vuoi la pace nel tuo regno, prendi buona cura delle definizioni». Credo che Qiao Liang e Wang Xiangsui non lo abbiano fatto, nella misura in cui usano il termine di «guerra» in modo così indiscriminato da fargli perdere ogni utile significato. Leggo nel loro libro l'elenco delle «guerre non militari» ( sic): guerra finanziaria, guerra commerciale, guerra di risorse, guerra dell'aiuto economico, guerra normativa, guerra di sanzioni, guerra mediatica, guerra ideologica. Ci mancano solo la guerra sentimentale e la guerra sportiva! Se usiamo «guerra» al posto di divergenza, dialettica, contrapposizione, conflitto, perdiamo la specificità del concetto (che dovrebbe riferirsi a una violenza organizzata non individuale) e perdiamo soprattutto di vista l'alternativa fra soft power e hard power. Anzi, scompare completamente la stessa politica, di modo che Clausewitz viene esattamente capovolto, dato che la politica, se accettiamo queste premesse, risulta essere non altro che la continuazione della guerra con altri mezzi. Gli autori, come si legge nella parte introduttiva del libro, sono convinti che per combattere coloro che infrangono le regole gli Stati debbano essere pronti a rompere essi stessi le regole e, anzi, arrivano a dire «in guerra non ci sono regole». Come fa notare il generale Fabio Mini nella sua bella postfazione, lo sforzo per imporre limiti alla guerra costituisce invece un patrimonio da non abbandonare, ma anzi da difendere. Proprio perché non siamo riusciti a mettere la guerra fuori legge, almeno dovremmo cercare di mettere la legge nella guerra. In parte ci siamo riusciti e dovremmo estendere adesso, appunto, questo sforzo al terrorismo ( violenza con certe caratteristiche specifiche messa in atto da soggetti non statuali), da mettere al bando anche legalmente come si sono messi al bando, soprattutto con le convenzioni di Ginevra e dell'Aja, alcuni strumenti e obiettivi della azione bellica da parte degli Stati.

Magris: Condivido in pieno la fondamentale distinzione fra attacchi a obiettivi militari e a obiettivi civili; ciò permette di distinguere il terrorismo dalla guerriglia, legittima quando un Paese viene attaccato e occupato da un nemico incomparabilmente più forte, come ad esempio a suo tempo la Norvegia dalla Germania nazista. Tale distinzione, facile in un'azione di un piccolo gruppo (a seconda che getti una bomba contro un carro armato o in un autobus), temo sia pressoché impossibile nella vera e propria azione di guerra. È inevitabile colpire non solo l'aereo nemico in volo o la base da cui parte, ma anche la fabbrica delle bombe, in cui lavorano civili, e la fabbrica dei singoli pezzi necessari per costruire le bombe e così via. Così come il soldato che non spara ma è addetto ai telefoni combatte, pure la costruzione di quei telefoni contribuisce alla guerra come la costruzione delle armi. Si possono tutt'al più qualificare come azioni terroristiche e non militari le azioni distruttive condotte quando non sono più necessarie, quando il nemico è già quasi vinto, come il bombardamento di Dresda. Non intendo affatto, sia chiaro, annacquare le responsabilità morali e politiche, che sono sempre individuali, in una zona grigia. Dico solo che, a mio parere, non è facile applicare quella tua distinzione in modo netto. Se terrorismo è violenza su civili, lo è anche un provocato collasso economico di una società, a prescindere dal fine che persegue chi lo attua. Il rapinatore che vuol solo rubare ma per rubare uccide è un assassino, non un ladro. E anche uno Stato può dunque essere terrorista, nella tua accezione (per esempio Stalin). Comunque, ogni norma — anche se inapplicabile in modo compiuto e coerente — è benvenuta se contribuisce a diminuire anche solo di poco la strage e l'orrore.

Toscano: Tu dici giustamente che è molto problematico applicare in modo netto le distinzioni fra azione terrorista e azione militare. Sono del tutto d'accordo ma anche per quanto riguarda il terrorismo dobbiamo fare riferimento a quello che nel diritto penale si chiama «dolo specifico» ovvero alla intenzionalità.
Ad esempio, una azione militare può produrre «danni collaterali», ma non per questo diventa terrorismo. Il problema si pone anche per le azioni di guerriglia: chi fa esplodere una bomba al passaggio di un blindato e uccide dei passanti va visto esattamente come quel pilota che causa vittime civili quando cerca di colpire un obiettivo militare. Qui però credo sia indispensabile fare una precisazione: la discriminante non è il fatto se le persone bersaglio di una azione di tipo violento vestono o no una divisa.
L'importante è con quale mandato e con quali modalità stiano operando: un attacco contro soldati in missione di peacekeeping è terrorismo, non guerriglia.
Dresda e Hiroshima sono difficilmente presentabili sotto la luce dei «danni collaterali» ai civili nel corso di una azione di tipo militare. Ma credo che anche se in questi casi si potrebbe parlare di «intento terrorista» (piegare la volontà dell'avversario colpendo obiettivi civili) non abbiamo bisogno di nuove norme, visto che già esistono le Convenzioni di Ginevra che proibiscono le azioni militari contro obiettivi civili. È interessante notare che nel già citato rapporto sulla riforma delle Nazioni Unite si esclude dalla definizione di terrorismo questo tipo di azione, ricordando che l'uso della forza contro i civili è regolato dalle Convenzioni di Ginevra e altri trattati internazionali e che in certi casi costituisce un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità. Ecco perché non è utile, sebbene sia comprensibile dal punto di vista politico e polemico, parlare di « terrorismo di Stato » .

Magris: Si può parlare non ipocritamente di missione di pace nel caso non della Croce Rossa o di suore Orsoline, bensì di soldati, il cui fine ( in molti casi giusto) è appunto quello di fare, se necessario, la guerra? Puoi farmi esempi concreti di azioni distruttive terroristiche e no? Dresda, Hiroshima ( e più ancora Nagasaki), i kamikaze palestinesi, i bombardamenti israeliani di villaggi, le rappresaglie naziste e le azioni partigiane che miravano anche a provocarle per diffondere l'odio verso il nemico, cosa sono?

Toscano: Visto che parli di Palestina, voglio risponderti con una bella storia che ho trovato in una rivista online. Si tratta del racconto di un giornalista olandese, molto di sinistra e simpatizzante della causa palestinese, che si è recato nei territori occupati per cercare di comprendere le ragioni delle azioni dei terroristi suicidi e in particolare dell'atteggiamento (molto spesso di addolorata soddisfazione, se non esultazione) delle loro famiglie.
Racconta il giornalista di essere riuscito a calarsi con comprensione e anche solidarietà in quella psicologia, in quel dramma morale, politico e psicologico, ma aggiunge poi di essere stato fulminato da un pensiero: «Mio padre era nella resistenza olandese contro gli occupanti nazisti. Ma lui non avrebbe mai messo una bomba su un autobus pieno di civili tedeschi» . E la sua comprensione, la sua solidarietà, hanno trovato un loro preciso limite.
Ancora una volta, la causa non c'entra. Resta la possibilità — secondo me, il dovere — di separare nella nostra analisi e nel nostro giudizio causa da strumenti. E resta la possibilità di comprendere che le stesse persone, per la stessa causa, possono operare come terroristi o come guerriglieri. Attaccare una postazione dell'esercito e mettere una bomba su un autobus urbano non sono la stessa cosa: né militarmente né politicamente né moralmente. Non dovrebbero esserlo nemmeno dal punto di vista giuridico.

Magris: Quali giudici, quali tribunali sono legittimati a giudicare, senza incorrere nella «giustizia dei vincitori»? Quali colpevoli sono da chiamare in causa, il soldato che sgancia la bomba, il comandante che glielo ordina, il capo di stato maggiore, il capo dell'esecutivo? Nel terrorismo genocida dei Tutsi e degli Hutu, chi è da considerare responsabile, i capi, i singoli — numerosissimi — tagliagole? È stato giusto, a Norimberga, impiccare von Keitel, un generale autore dei piani di strategie d'invasione, più che del genocidio messo poi in atto dai nazisti nei territori invasi? Per Nagasaki bisogna processare il pilota o il presidente Truman? Come diceva Brecht, domande, domande, domande.

Toscano: Il problema del rapporto fra esecutori e mandanti è antico come il diritto penale e si presenta sempre in presenza di una azione criminale eseguita in ambito collettivo, sotto strutture di tipo gerarchico.
A Norimberga — credo molto correttamente — si giunse, nel processare i responsabili dei crimini nazisti, ad applicare il seguente criterio: l'ordine ricevuto non può essere una causa di non punibilità, ma solamente costituire una attenuante. Fra l'altro ormai in moltissimi codici militari attualmente in vigore nel mondo si precisa che gli ordini palesemente contrari all'umanità possono essere disattesi. Insomma, nessuno può sottrarsi non solo alla propria responsabilità morale, ma anche a quella legale.
Ho citato Norimberga, ma potremmo anche parlare di tribunali internazionali più recenti, come quello per i crimini commessi durante il conflitto nella ex Jugoslavia o in Ruanda.
Oggi però esiste una Corte penale internazionale, che fornisce molte più garanzie di obiettività (non essendo un «tribunale dei vincitori») di quanto non possa fornire un tribunale ad hoc.
Ma lo statuto della Corte, comprende o no il terrorismo? Anche se alcuni critici della Cpi lo hanno negato, in assenza di riferimenti espliciti, io credo invece che la risposta debba essere affermativa. Se prendiamo l'articolo 7 vediamo come esso parli di «attacchi estesi o sistematici diretti contro qualsiasi popolazione civile» . Chi può dubitare che l'uso di terrorismo nucleare, chimico o batteriologico ricada in questa definizione? L'articolo 8, poi, parla di « conflitti armati che non hanno carattere internazionale » e identifica fra le azioni perseguibili sulla base dello statuto della Corte «atti commessi contro persone che non prendono parte attiva alle ostilità» . A me sembra evidente che le azioni del nuovo terrorismo globale rientrino in questa definizione.

 


last update 22/12/06

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