L'ambasciata
italiana, rifugio dall'inferno.
25o ANNIVERSARIO DEL COLPO DI STATO MILITARE IN CILE
La
Stampa, 11
September 1998
E' passato da allora un
quarto di secolo. Venticinque anni di incarichi svolti in numerosi Paesi,
con esperienze di vita e di lavoro intense, e tali da non permettere di
soffermarmi su quella che fu la primissima fase della mia carriera di
diplomatico. Eppure, il Cile, e soprattutto le lezioni di quei giorni
febbrili, quasi irreali, iniziati l'11 settembre 1973 mi hanno marcato
profondamente, hanno determinato sensibilita' e successive scelte, hanno
inciso sul modo di vedere la mia professione. Sono lieto che mi sia offerta
l'occasione di condividere queste personali "lezioni del Cile" con
i lettori della Stampa. La prima fra tutte e' quella della comune fragilita',
della esposizione di tutti alle possibili tragiche svolte della storia.
Perche' quella mattina dell'11 settembre chi si trovava a Santiago fu
testimone di una vera catastrofe, in senso etimologico: un capovolgimento
delle regole della convivenza, un brutale accantonamento del diritto. Ben
presto venni messo di fronte a una straordinaria verita'. Al fatto che in
situazioni estreme il comportamento dei singoli non e' prevedibile, e che le
persone si distinguono lungo misteriose linee che hanno a che fare quasi
esclusivamente con valori etici e temperamento. Per fare un riferimento che
all'epoca mi era sconosciuto, posso dire che nel Cile di quei giorni conobbi
molti Perlasca, persone cioe' che, come quell'italiano che nel 1944 salvo'
migliaia di ebrei a Budapest, rischiavano la vita per salvare chi era in
pericolo al di la' di affinita' ideologiche. E mi tornano davanti le persone
che di fronte all'orrore della repressione capirono che la scelta era
soltanto fra la vittima e il carnefice, e che tutte le altre considerazioni
dovevano essere sospese: il vescovo Ariztia, animatore di quel "Comite'
pro Paz" che a lungo rimase l'unico punto di riferimento per le
famiglie degli scomparsi, per i torturati, i perseguitati; le timide suore
improvvisamente trasformatesi, per sottrarre nuove vittime alla macchina
della repressione, in maestre di clandestinita'. ("E' arrivato il pacco?"
- mi chiedeva una di loro al telefono per sapere se qualcuno era riuscito a
saltare il muro dell'ambasciata d'Italia). L'ambasciata d'Italia, appunto.
Dall'11 settembre del 1973 fino alla fine del 1974 circa 600 asilados vi
trovarono rifugio. In quei giorni tragici imparai - grazie soprattutto
all'esempio di chi aveva in quei giorni la difficile responsabilita'
dell'ambasciata, l'incaricato d'affari Piero de Masi - che professionalita'
diplomatica e umanita' non sono in contrasto, e compresi nello stesso tempo
che come diplomatici avevamo un inaspettato potere di "fare cose"
in un momento in cui tutti erano paralizzati, schiacciati. Condizione, pero',
era il rispetto delle regole. Non certo per vuoto formalismo, e nemmeno per
dare ai governanti di fatto un riconoscimento morale che certo non
meritavano. Ma proprio per mantenere la possibilita' di agire, muoversi,
ottenere. Di entrare nell'Estadio Nacional a riprendere alcuni italiani (per
fortuna pochi) che si erano trovati a Santiago nei giorni del golpe ed erano
caduti in qualche retata dei militari. Di negoziare con il ministero degli
Esteri cileno, con cui sempre riuscimmo a mantenere un rapporto di piena
correttezza, la consegna di salvacondotti per la partenza dei nostri
asilados. E allora, le regole del gioco: quelle che sono proprie dell'asilo
diplomatico, un istituto che non e' nel diritto internazionale generale, ma
che e' stato storicamente praticato nei Paesi dell'America Latina. Prima
regola: mai favorire attivamente l'ingresso nella sede diplomatica di una
persona in cerca di rifugio. Ma va detto che nel nostro caso non ce n'era
bisogno: il lungo muro perimetrale dell'ambasciata d'Italia non era poi cosi'
difficile da scavalcare, soprattutto quando qualcuno (e un giorno scoprii
che in vari casi si trattava proprio di una di quelle suore) si prestava a
fare la scaletta. A rischio - certo - di prendersi una pallottola, visto che
carabineros e soldati cercavano (anche se per fortuna non sempre con la
stessa convinzione) di fermare gli ingressi. Sono stato testimone di tanti
gesti di coraggio. Ma anche (e questa non e' una lezione meno importante)
sono stato messo a confronto con la prosa della convivenza quotidiana in una
casa dove si arrivo' ad ospitare contemporaneamente centotrenta persone.
Grandi e piccoli. Giovani e vecchi. Ragionevoli e meno ragionevoli.
Disciplinati e meno disciplinati. E alcuni, profondamente danneggiati, sia
fisicamente che psicologicamente, dal passaggio nelle mani degli apparati
repressivi: il medico - un italiano del Cile (incidentalmente, tutt'altro
che simpatizzante di Allende) che presto' per mesi gratuitamente la sua
opera - aveva molto lavoro. Tragedie umane, famiglie divise, con necessita'
di comunicare. E allora passavamo meta' della giornata nella residenza -
dove non c'era piu' un ambasciatore e non si facevano piu' ricevimenti, ma
alloggiavano decine di "ospiti" - ma l'altra meta' negli uffici,
in un'altra parte della citta', dove si snodava una ininterrotta processione
di familiari con lettere e pacchettini, con domande sulla concessione dei
salvacondotti, e poi sul ricongiungimento in Italia. Ma era bello essere
diplomatici italiani a Santiago, in quei giorni. Perche' era utile. Perche'
vi era l'occasione di dimostrare che per l'Italia solidarieta' umana e
scelta di campo in favore della democrazia non sono retorica, ma norma di
condotta anche in campo diplomatico. E anni dopo mi ha fatto piacere che nel
film "Missing" comparisse proprio l'ambasciata d'Italia come umana
oasi di rifugio nella tragica Santiago di quei giorni. Roberto Toscano.
last update
22/12/06
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