Un sistema di regole anche
contro violenza e terrorismo - intervista / il nuovo libro di roberto
toscano La
Repubblica, 16 June 2006 il
diritto "È l´unica
garanzia possibile di una convivenza civile Anche se lega le mani agli
Stati e ai cittadini" la
politica "Serve un lavoro di adattamento delle norme e delle
istituzioni un adattamento culturale e morale"
Diritto
internazionale e etica. Un campo minato. Un rapporto sempre sul filo del
rasoio, che di solito interessa i filosofi. A occuparsene questa volta è
invece un addetto ai lavori, un diplomatico in carriera da 37 anni, che in
questo momento è ambasciatore d´Italia
in Iran, uno dei nodi cruciali della strategia politica ed economica dell´Occidente.
Roberto
Toscano
si era già dedicato all´argomento
sei anni fa, con un libro Il volto del nemico. La sfida dell´etica
nelle relazioni internazionali (Guerini). Ancora non c´era
stato l´11 settembre, che come si usa
dire ha cambiato tutto (anche se Toscano rileva che la sfida al monopolio
statuale della violenza era emersa subito dopo la fine della guerra fredda,
prima dell´attacco
alle Torri Gemelle). Con
il suo nuovo libro La violenza, le regole (Einaudi, pagg. 116, euro 8)
Toscano esamina ora quali regole possano limitare la nuova violenza sempre
più
privatizzata, fuori da tutte le norme che gli Stati si sono faticosamente
dati nel corso della storia. Che
fare dunque? «Serve un lavoro di adattamento
delle norme e delle istituzioni, ma prima ancora un adattamento culturale
e morale. Oggi lo sfasamento tra le norme elaborate dagli Stati al fine di
limitare e regolare la violenza, e la comparsa di "soggetti della
violenza" diversi dagli Stati, come i warlords o i terroristi, apre
la strada ad una regressione verso una violenza senza limiti e senza
regole. Una situazione in cui il più barbaro finisce di fatto per
dettare le norme generali».
Alcuni
sostengono però che le norme, il diritto
internazionale, finiscono per legare le mani a chi deve difendersi dalla
barbarie. Considerano inevitabile percorrere spazi al di fuori della legge.
Per esempio, se da un terrorista arrestato si può
sapere della preparazione di un attentato, la tortura potrebbe essere
giustificata, dicono, dalle vite umane che verranno salvate.
«E´
il diritto in generale, non solo quello internazionale, a legare le mani,
per così
dire, allo Stato e ai cittadini onesti, ma è
anche l´unica
garanzia possibile di una convivenza civile in cui la violenza sia bandita.
Certo, ci siamo tutti nutriti di film western in cui il Buono, esasperato
dai soprusi dei Cattivi, prende la pistola e si fa sceriffo, giudice e
boia al di fuori e spesso contro ogni norma esistente. Non credo però
si tratti di un modello sostenibile di convivenza internazionale. Il
terrorismo costituisce una terribile sfida ai nostri principi sia morali
che legali, ma le società forti sono quelle che si
dimostrano capaci di resistere a questa sfida senza perdere la bussola,
senza rinnegare le ragioni più profonde che le ispirano. L´alternativa
è quella di mettere in moto un
perverso meccanismo di giustificazioni incrociate, come dire che uccidere
i bambini di un asilo potrebbe essere moralmente giustificato se con
questo atto si riesce a mettere fine ad una occupazione militare fonte di
ricorrenti uccisioni di civili, e via giustificando».
Col
terrorismo le difficoltà
cominciano fin dalla sua definizione. Tutti i tentativi falliscono forse
per l´ambivalenza
morale del concetto. Nessuno vuole che le proprie azioni violente siano
degradate a terrorismo. Altri lo giustificano come l´arma
dei deboli, Davide contro Golia. Quali criteri adottare?
«La definizione di terrorismo
non è
poi così difficile. Partiamo da quello
che non è.
Non è una causa o un partito:
qualunque causa - animalista, antiabortista, ecologica, perfino mafiosa -
può
essere perseguita con il terrorismo. E´
invece un mezzo, e la sua essenza consiste nella natura del bersaglio: un
bersaglio privo di valore intrinseco sotto il profilo militare, ma
efficace per piegare, colpendolo, la volontà
dell´avversario.
La guerriglia dunque non è
terrorismo, ma i guerriglieri spesso fanno ricorso a operazioni di tipo
terrorista. Mentre colpire non intenzionalmente dei civili in una
operazione di guerriglia equivale a colpirli nel corso di una operazione
militare. Come sempre nel diritto penale, bisogna precisare il «dolo
specifico»,
l´intenzionalità.
Che sicuramente è
difficile da stabilire, ma non più
di quanto lo sia nell´ambito del normale diritto
penale. Lo scetticismo sulla possibilità
di definire il terrorismo, più che essere il prodotto di
difficoltà
insuperabili, ha a mio parere basi politico-ideologiche».
Il
diritto internazionale esclude sempre la guerra preventiva?
«Qui è
molto importante definire i concetti, l´inglese
è
più chiaro perché
distingue preemption e prevention. Nel primo caso si tratta di una azione
messa in atto di fronte a fatti concreti, per esempio nella dottrina
nucleare la preemption ipotizzava un attacco contro un missile nemico in
fase di lancio. Siamo evidentemente nel campo della legittima difesa.
Diverso è
il concetto di prevention laddove esso si riferisca a una altrui
intenzionalità,
o, peggio ancora, alle dichiarazioni minacciose dell´avversario
o a una sua presunta predisposizione di strumenti e strategie di attacco.
Questo per quanto riguarda il terreno militare. Se ci spostiamo su quello
della intelligence contro le reti terroriste, o della azione politica tesa
a contrastarne la popolarità e
a prosciugarne la rete di appoggi, la prevenzione non solo è
legittima, ma anzi dovrebbe essere considerata come molto più
efficace della pur necessaria repressione».
Una
domanda personale, da dove viene l´interesse
di un diplomatico per l´etica?
«Perché
facendo questo mestiere è inevitabile farsi domande non
solo di natura tecnica. E perché
nel pormi problemi di natura etica penso anche di muovermi nell´alveo
di quella che considero l´ispirazione più
profonda del nostro Paese nella sua azione internazionale».
last update 20/12/06 |